Ucciso il difensore dei curdi
Ha dedicato la sua vita alla ricerca della verità, della giustizia, alla difesa dei diritti umani. Ha rischiato la propria vita per difendere i diritti di chi veniva arrestato, torturato, fatto sparire con la forza. Ha portato le violazioni dei diritti umani commesse in Turchia all’attenzione della comunità internazionale. Era impossibile ignorare la sua voce e così i suoi avversari hanno trovato il modo di farlo tacere. Tahir Elçi, avvocato e difensore dei diritti umani, è stato ucciso il 28 novembre scorso a Diyarbakir, in Turchia.
Il mese precedente era stato condannato a sette anni e mezzo di carcere per aver detto in televisione: “Non vogliamo armi, scontri o operazioni di polizia. Il PKK [il gruppo armato curdo, il Partito dei lavoratori del Kurdistan] non è un’organizzazione terroristica, si tratta di un movimento politico armato con un considerevole sostegno”. L’affermazione ha scatenato una campagna intimidatoria nei suoi confronti, comprese minacce di morte al telefono e sui social media.
Le autorità hanno recuperato il proiettile che lo ha ucciso tre giorni dopo la sua morte. La scena del delitto non è stata subito isolata e un sopralluogo sulla scena del crimine è avvenuto con molto ritardo.
Diyarbakır, dove è avvenuto l’assassinio, è una città del sudest della Turchia, situata lungo le sponde del fiume Tigri e capoluogo della provincia omonima.
È una delle città turche con la maggior presenza di Curdi. Oltre il 70 per cento della popolazione parla curdo e lo utilizza come lingua primaria al posto del turco.
La campagna antiterrorismo lanciata lo scorso anno dal presidente turco Erdogan avrebbe dovuto colpire le basi siriane dello Stato islamico (ISIS) ma ha finito per rivolgersi quasi esclusivamente contro obiettivi curdi in Iraq e Turchia. E così, a Diyarbakir un’intera generazione di giovani curdi si sta unendo a una lotta che era rimasta dormiente.
Per tre decenni, la provincia di Diyarbakir è stata epicentro di un sanguinoso conflitto tra l’esercito turco e i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Abdullah Ocalan, all’epoca studente di scienze politiche ad Ankara, aveva fondato l’organizzazione per reclamare i diritti civili che per oltre mezzo secolo erano stati negati alla minoranza curda, la più ampia del paese (tra il 18 e il 30 per cento, secondo differenti stime). Oltre a vivere in condizioni di emarginazione e sottosviluppo, fin dalle scuole elementari i giovani curdi erano sottoposti a programmi di rieducazione, per seguire il prevalente Panturchismo. Si stima che i Curdi siano fra 20 e 30 milioni e che quindi costituiscano uno dei più grandi gruppi etnici privi di unità nazionale. Per oltre un secolo molti Curdi hanno cercato di ottenere la creazione di un “Kurdistan” indipendente o perlomeno autonomo, con mezzi sia politici sia militari. Con il Trattato di Sèvres del 1920 le grandi potenze vincitrici della prima guerra mondiale garantirono ai Curdi la possibilità di ottenere l’indipendenza all’interno di uno Stato, i cui confini sarebbero stati definiti da una commissione ad hoc della Società delle Nazioni. Ma il trattato non fu mai applicato. I governi degli stati che ospitano un numero significativo di Curdi si sono sempre opposti all’idea di uno Stato curdo.
La riforma linguistica del 1928 vietò l’utilizzo della lingua curda, e successive leggi obbligarono i curdi ad assumere nomi che rimandassero ad ascendenze turche, oltre a bandirne la musica e i costumi. Nelle scuole i ragazzi dovevano marciare ripetendo slogan come: ‘né curdi, né arabi, qui siamo tutti turchi’. Nacque così nel 1984 un’insurrezione armata sotto la guida di Ocalan. La guerra tra il governo e i curdi si pensa abbia prodotto quasi 50 mila vittime, 18mila delle quali civili. Centinaia di villaggi, sospettati di fornire riparo ai guerriglieri, sono stati assediati, bombardati e bruciati dall’esercito, che in questo modo ha dato inizio a una massiccia diaspora che ha portato almeno due milioni di contadini a cercare riparo nelle città e fuori dai confini turchi.
18.03.2016
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