Odio e Vendetta
L’Odio di Hamas e la Vendetta di Israele
Pensavamo che l’orrore della guerra e dei bombardamenti sui civili in Ucraina fosse il punto più basso della storia degli ultimi decenni, a due passi da casa nostra. Non che guerre, guerriglie e conflitti in mondi molto più lontano da noi ci avessero particolarmente scioccato. Nelle scuole di giornalismo si insegna che per suscitare interesse, e quindi audience o partecipazione, una notizia deve soddisfare alcuni criteri, come prossimità, drammaticità o coinvolgimento diretto ma anche indiretto. Nessuno mette in dubbio che le centinaia di migliaia di morti in conflitti in Etiopia, Ruanda, Somalia, Sudan, Myanmar, Congo, per citarne alcuni, non appartengano alla categoria ‘drammaticità’. Ma non a quella della ‘prossimità’. E neppure del ‘coinvolgimento’. Non sono terre con risorse sufficienti a destare interesse nel mondo che conta. Insomma, per esempio, quanto più è lontano da noi un evento tanto più deve essere elevato il numero delle vittime perché qualcuno ci racconti di ciò che sta accadendo mantenendo la nostra attenzione e impedendo che un dito prema sul telecomando o faccia scorrere lo schermo a destra o sinistra, o in alto o in basso, a seconda del modello del nostro smartphone.
La guerra in Ucraina ha invece tutti gli ingredienti giusti: drammaticità – attacco russo improvviso e inaspettato, prossimità – nel cuore dell’Europa – coinvolgimento indiretto e diretto – rialzo dei prezzo dell’energia, emigrazione forzata verso i Paesi dell’Unione Europea. E soprattutto pensavamo che la mattanza di donne, bambini e anziani in Ucraina fosse quanto di più degradante possa un umano escogitare, per di più in una parte del globo cosiddetta civilizzata, per dimostrare la sua forza. Pensavamo che due anni di guerra in Ucraina e la sopraffazione verso coloro che sono percepiti come più deboli non fosse altro che uno dei momenti più folli dell’umanità.
Ci eravamo sbagliati. Dal 7 ottobre in poi è accaduto di più. Abbiamo scoperto ciò che già si sapeva esistesse ma pensavamo fosse stato accantonato dopo le barbarie delle altre guerre degli ultimi ottanta anni. Dalla Somalia, al Ruanda, all’ex Jugoslavia, all’Iraq, alla Siria, all’Afghanistan, alla Libia, a tante altre che la memoria fatica a ricordare. Ma questo odio misto a vendetta nessuno se l’aspettava in queste proporzioni. Millequattrocento persone uccise o sequestrate da Hamas in Israele il 7 ottobre, in gran parte israeliane, con tanto di torture e violenze. Dopo lo choc iniziale è cominciata l’invasione israeliana nella striscia di Gaza, a caccia dei miliziani di Hamas responsabili del massacro e alla ricerca degli ostaggi. E sono cominciati i bombardamenti. Abbiamo superato la cifra di ventimila morti, in gran parte civili, donne, anziani e bambini. L’UNICEF ha definito Gaza un cimitero di bambini.
Israele non è nuovo a questi massacri. Nel 1982 durante la guerra civile libanese fra le milizie cristiane maronite e sciite, avvenne il massacro di Sabra e Chatila, campo profughi alla periferia di Beirut. L’esercito israeliano aveva invaso il Libano, per fare piazza pulita dell’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Arafat, in lotta per la creazione di un territorio sovrano palestinese in Israele. Dopo un lungo assedio l’OLP accettò di ritirarsi dal Libano, ottenendo una garanzia di protezione internazionale per i profughi palestinesi nel territorio a ridosso del confine israeliano. Ma anziché essere protetti i profughi vennero massacrati. Secondo alcune stime insieme a torture e violenze vennero uccise tremilacinquecento persone, in gran parte palestinesi e sciiti libanesi. L’esercito israeliano aveva il controllo del territorio e impediva a giornalisti e alla Croce Rossa di entrare. Entrarono invece le milizie cristiane maronite che con la complicità di Israele diedero vita al massacro. Una bomba finì anche su una struttura delle Nazioni Unite dove avevano trovato riparo rifugiati palestinesi. Un uomo uscì in strada con in mano quello che sembrava un bambolotto di stoffa. Era suo figlio di pochi mesi, senza testa.
Uno dei tanti massacri nella storia dell’umanità. Stragi e crimini di guerra sono avvenuti ovunque. Innumerevoli pagine sono state scritte sui bombardamenti di Dresda, di Tokyo, sulle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, sul massacro di Nanchino, sui campi di sterminio cambogiani, sul massacro di Srebrenica, sul napalm, agente orange e fosforo bianco usati sui civili durante quella che i vietnamiti chiamano ‘la Guerra Americana”. E poi sul gas nervino dell’Iraq su popolazioni dell’Iran. E ovviamente sull’olocausto degli ebrei, la suprema follia di tutte le guerre, con la compiacenza o il silenzio di un’intera nazione.
In questi giorni cade il settantacinquesimo anniversario dell’approvazione della Dichiarazione Universale dell’ONU sui Diritti Umani. L’articolo uno recita così: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti…”, l’articolo due recita: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, colore, sesso, lingua, religione opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”
Sembrano frasi vuote se si pensa a quello che sta accadendo a Gaza, Israele e nei Territori palestinesi occupati. Il recente scambio di ostaggi fra Hamas e Israele prevedeva un ostaggio di Hamas in cambio di tre palestinesi detenuti nelle prigioni in Israele. Una sorta di uno vale tre. E già questo stride con la Dichiarazione dell’ONU.
La Dichiarazione, così come la Carta dell’ONU, non contempla la vendetta. Eppure esiste. La storia ci racconta che più di un Paese ha applicato proprie regole all’occorrenza. Per vendicare 2977 morti nell’attentato alle due torri gemelle di New York si è dato la caccia a Osama bin Laden, ideatore dell’attentato. Per catturarlo e poi ucciderlo sono morte in Afghanistan 176mila persone, sessanta volte il numero dei morti nell’attentato alle torri di New York. Per catturare e uccidere Saddam Hussein sono morte secondo alcune stime un milione di persone, in gran parte civili.
Per la caccia e presumibilmente l’eliminazione dei miliziani di Hamas sono stati uccisi finora ventimila civili, intrappolati in un territorio grande come metà del comune di Ravenna ma abitato da oltre due milioni di persone, quasi tutte più volte sfollate e ora ammassate nella città di Rafah, in un territorio grande come un settimo della città di Urbino e dove non c’è riparo dalle bombe che piovono dal cielo.
Perché i soldati israeliani infieriscono così duramente su donne, anziani e bambini a Gaza? Sarebbero state sganciate anche bombe di duemila chili su palazzi abitati da civili dove in tunnel sotterranei si troverebbero i miliziani di Hamas. Ma i tunnel sono ovunque e sopra i tunnel vi sono oltre due milioni di palestinesi, costretti a fuggire con ogni mezzo per salvarsi dai bombardamenti quotidiani e cercare un rifugio che non esiste. A nord e ad est il territorio di Gaza è circondato dall’esercito israeliano, a ovest dal mare e a sud dall’Egitto che ha chiuso il confine.
Chi comanda un aereo militare israeliano sgancia bombe su civili che non vede. Ovviamente il pilota esegue un ordine ma in teoria potrebbe anche aleggiare nella sua mente un sentimento simile alla colpa o all’angoscia di ciò che sta per provocare quel bottone premuto. Ebbene questo senso di disagio sarebbe comunque presumibilmente attenuato non solo dal pensiero del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre e quindi misto ad una sorta di diritto alla difesa e alla vendetta che si sta per compiere. Ma soprattutto il pilota non vede le persone, non vede gli anziani, le donne e i bambini in strada, vede forse delle macerie o dei palazzi da colpire anche se dentro ci sono civili. Pensate cosa accadrebbe trovarsi un bambino davanti e sparagli addosso. Ma da lassù non si pensa all’effetto del pulsante premuto. Dall’aereo si vede solo fumo e polvere. Non si sentono neppure le grida, i pianti e il dolore. Si intuisce ma non si vede la morte che sta per colpire chi sta lì sotto.
Ma noi le sentiamo quelle grida di dolore. Vediamo la disperazione dei sopravvissuti. Poco dalle tv di casa nostra, che indugiano, come sembra ovvio, sul dolore del massacro compiuto da Hamas quel sette di ottobre – la caccia ai villaggi israeliani, le violenze, gli ostaggi rapiti, duecentoquaranta, metà dei quali sarebbero oggi ancora prigionieri nei tunnel di Gaza.
Eppure ciò che sta accadendo a Gaza è straziante. Scene apparse sui social media a profusione ma che su gran parte dei media italiani e sulla tv di stato hanno avuto solo attenzione secondaria. Per molti giorni in primo piano sempre le sofferenze di Israele, quelle dei palestinesi sempre dopo e con molto meno spazio. Il TG1 delle 20 del 2 dicembre ha dato conto della morte di duecento palestinesi sotto le bombe a metà del telegiornale. Nella battaglia per liberare dall’ISIS la città irachena di Mosul, durata nove mesi, sono morti novemila civili, un terzo dei quali ad opera delle forze armate occidentali e irachene. In soli due mesi i bombardamenti a Gaza hanno causato il doppio dei morti civili morti a Mosul in nove mesi.
Dopo l’iniziale sgomento di ciò che era accaduto siamo venuti dunque a conoscenza della reazione israeliana al massacro di Hamas e abbiamo visto l’altra faccia del dolore, quello palestinese, sul quale in vero è stato deciso di non indugiare. Neppure sui morti. Non potendoci basare sui resoconti dei media di casa nostra, sia per l’assenza di copertura mediatica occidentale, sia per una sorta di reticenza a non puntare il dito contro Israele e il suo dolore, si è continuato a narrare la storia che la colpa è solo da una parte e che Israele sta solo difendendo la sua gente e la sua nazione, e si è continuato a girarsi dall’altra parte di fronte ai bombardamenti a tappeto dell’aviazione israeliana. Non sono stati risparmiati neppure ospedali e un centro delle Nazioni Unite con dentro malati e sfollati. Dal resoconto della rete televisiva Al Jazeera, di base nel Qatar, Paese che ha mediato la liberazione di una parte degli ostaggi e che ospita la dirigenza politica di Hamas, abbiamo visto in diretta ciò che stava accadendo. Cui si è aggiunta la ormai onnipresente rete dei social da cui non si può più scappare.
E abbiamo visto lo sguardo di un bambino di non più di dieci anni che vaga fra le macerie dopo un bombardamento alla ricerca della sua famiglia che non trova più. Sul suo volto c’è il terrore, l’abbandono. Ricorda uno dei più famosi dipinti di Pablo Picasso, Guernica, dal nome del paese basco distrutto dai bombardamenti tedeschi e italiani durante la guerra civile spagnola, quando Germania e Italia insieme sostenevano il regime franchista. Il quadro di Picasso sembra raffigurare il volto di quel bambino e di tanti altri bambini rimasti soli nella loro disperazione. Può esistere qualcosa di più terribile del volto di un bambino che si trova all’improvviso solo nella vita, orfano di guerra a dieci anni, o a cinque o a pochi mesi di vita. Un bambino che in lacrime ripete come un mantra :”Ditemi che è un sogno, ditemi che sto sognando, ditemi che mio papà e mia mamma sono vivi…” O lo sguardo senza espressione di un bimbo di quattro o cinque anni accovacciato per terra, con le sue manine che scavano sulla sabbia e le pietre accanto a lui per cercare di vedere riapparire i suoi genitori da là sotto. Se questo è un uomo, avrebbe detto Primo Levi.
Il terrore della guerra, l’angoscia e la disperazione nel quadro di Picasso prendono forma nel volto di quel bambino e delle madri e dei padri che cercano fra le macerie i figli che non trovano più. Centinaia di persone si sono riunite nella notte a Guernica a ricordare i morti di allora e di oggi. Un abbraccio comune e di vicinanza davanti alla stessa sofferenza, oggi come quasi un secolo fa.
Il crimine di genocidio è definito dalle Nazioni Unite “l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale.” Lo storico israeliano Omer Bartov insegna Olocausto e Genocidi alla Brown University negli Stati Uniti. In un saggio per il New York Times ha scritto: “Come storico dei genocidi, credo che non ci siano prove di un genocidio a Gaza anche se è molto probabile che crimini di guerra o contro l’umanità stiano accadendo”. Ma la leadership israeliana, sostiene il professor Bartov, “ha l’intenzione di compiere un genocidio ed è necessario fermarla prima che accada”. Cita a supporto alcune frasi del primo ministro Benjamin Netanyahu che il sette ottobre disse: “gli abitanti di Gaza pagheranno un prezzo enorme per le azioni di Hamas”. Tre settimane dopo, citando il Deuteronomio, il quinto libro della Bibbia, Netanyahu disse: “Dovete ricordare ciò che Amalek fece a voi, dice la nostra Sacra Bibbia. E noi ci ricordiamo”. Nel Libro di Samuele, venerato come profeta nelle religioni ebraica, cristiana e islamica, Amalek è definito come nemico di Israele. Era capo di una tribù nomade che attaccò gli Israeliti durante la marcia verso la Terra Promessa. Secondo la Bibbia Dio ordinò agli Israeliti di sterminare gli Amaleciti e di non dimenticare mai la loro malvagità. Il ministro della difesa Yoav Gallant ha fatto eco al primo ministro con la frase: “Stiamo lottando contro animali e ci comporteremo da animali, mentre il generale maggiore Ghassan Alian ha aggiunto: “Non ci sarà elettricità né acqua, solo distruzione. Avete voluto l’inferno, avrete l’inferno.” Un altro generale, Giora Eiland: “Lo stato di Israele ha una sola scelta, quella di rendere impossibile vivere a Gaza. Creare una grave crisi umanitaria a Gaza è un mezzo necessario a raggiungere l’obiettivo. Gaza sarà un luogo in cui nessun essere umano può esistere.” Bisogna dare atto che le promesse si stanno avverando. Secondo il professor Bartov tutto questo incita i soldati sul terreno ad azioni che possono portare a un genocidio. Gli hutu in Ruanda chiamarono i tutsi ‘scarafaggi’. I nazisti chiamavano gli ebrei ‘parassiti’. E’ ora che i leader israeliani e gli studiosi sull’Olocausto, dice Bartov, pubblicamente ammoniscano contro la rabbia e la retorica piena di vendetta che deumanizza la popolazione di Gaza e ne chiede l’eliminazione.
Ma non ci sono solo i morti di Gaza e dei villaggi in Israele a ridosso di Gaza. Ci sono anche le violenze nei Territori Occupati da Israele della Cisgiordania, formalmente controllata dall’Autorità Palestinese. In realtà una parte consistente di quei territori è controllata dall’esercito israeliano ed abitata da cinquecentomila coloni israeliani che vivono in insediamenti incoraggiati da governi israeliani e considerati illegali dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale. I coloni girano armati e spesso indossano indumenti usati dai militari. Difficile distinguerli dai soldati e la loro presenza sempre più numerosa limita l’integrità territoriale di un futuro stato palestinese. Oltre duecentocinquanta palestinesi sono stati uccisi qui nei Territori Occupati della Cisgiordania dal 7 ottobre scorso, sulla scia della guerra a Gaza. Le frange più violente dei coloni aggrediscono e uccidono palestinesi con la compiacenza dell’esercito israeliano ed è concreto il rischio che scoppi una terza intifada, la rivolta palestinese. Molti palestinesi stanno lasciando le loro case e i villaggi sotto le minacce dei coloni. Si sta insomma scivolando verso una pulizia etnica sotto la copertura della guerra a Gaza.
In questi giorni un’inchiesta sulla morte di tre ostaggi israeliani ha appurato che sono stati uccisi per errore da soldati israeliani che pensavano si trattasse di una trappola di Hamas. Secondo Human Rights Watch, organizzazione per i diritti umani, è giusto indagare su un attacco apparentemente illegale come questo contro civili israeliani in zone di guerra, come stabilisce la legge, ma perché questo non accade quando i civili sono palestinesi?
Nonostante tutto ciò, per la prima volta in decenni si riprende a parlare di due stati, Israele e Palestina, idea che era ormai stata abbandonata dopo l’ascesa della destra al governo israeliano, sostenuto da gruppi estremisti che mirano invece all’annessione dei Territori palestinesi e a conglobarli nello stato di Israele e a costringere i palestinesi ad andarsene altrove. Forse è duro da digerire, ma la violenza può condurre alla pace. Non sarebbe la prima volta nella storia che la violenza generi presupposti per un dialogo di pace o la fine di un conflitto. E questo è accaduto sia prima che dopo la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Russa. Nel contesto attuale gli ostacoli sono due. Hamas e Netanyahu. Presupposto necessario per la pace dovrebbe essere l’uscita di scena di questi due attori principali. Di dopoguerra non si parla apertamente in un conflitto in corso, ma dietro le quinte sì. Hamas, anche se non dovesse essere completamente distrutto certamente non avrà né la forza né il consenso all’interno e all’esterno per rialzare la testa e gli abitanti di Gaza, quelli che resteranno e non se ne saranno andati via per sempre, dovranno pensare per molti anni a ricominciare una vita e a ricucire le ferite del corpo e della mente, se mai riusciranno a venirne fuori. Gli adulti di Gaza, ma anche della Cisgiordsania, ne hanno già sopportati tanti di soprusi che presumibilmente, una volta che il dolore riuscirà ad attenuarsi, riusciranno a ricominciare una parvenza di vita. Il peso più grande e più arduo sarà gestire la crescita dei ragazzi e dei bambini. Le loro ferite non se ne andranno probabilmente mai.
Insieme ad Hamas anche Netanyahu, l’altro attore protagonista di questa guerra, deve uscire di scena al più presto, senza attendere un’eventuale altra elezione per sancire il suo addio alla politica e l’avvio verso le aule dei tribunali nei quali sarà giudicato per reati di frode e corruzione di cui è accusato. Lo stesso premier israeliano è un ostaggio. Ostaggio della destra estremista religiosa che tiene a galla il suo governo, ad un prezzo folle. Il bilancio dello stato favorisce gli insediamenti in Cisgiordania, finanzia le scuole religiose e incoraggia le licenze sul possesso di armi ai coloni. E di fatto il suo governo impedisce lo sviluppo di un dialogo per la creazione di due stati, Israele e Palestina, uno accanto all’altro, e incoraggia invece l’annessione dei Territori palestinesi, impedendo così ai palestinesi di autogovernarsi e di fatto favorendo la pulizia etnica.
Il percorso verso la pace sarebbe agevolato se uscisse di scena anche Hezbollah, il gruppo estremista filoiraniano che comanda nel sud del Libano e che potrebbe minacciare o ostacolare eventuali aperture di pace fra israeliani e palestinesi. A seguire potrebbe anche avvenire la riunificazione della Striscia di Gaza e dei Territori Occupati sotto un’unica leadership. Indispensabile, infine, è il sostegno dei vicini Paesi arabi e dell’amministrazione americana. E tutto questo dovrebbe accadere prima del prossimo novembre perché l’eventuale elezione di Donald Trump alla presidenza americana presumibilmente complicherebbe il quadro geopolitico della regione. Bisogna dunque fare in fretta per far nascere la speranza. Come un’Araba Fenice, l’uccello mitologico originato nell’antico Egitto. Viveva nel deserto arabo e ogni cinquecento anni si bruciava da sola per poi rinascere dalle ceneri. Simbolo della morte e della rinascita.
Agostino Mauriello
21 dicembre 2023