Il Silenzio del Papa
Poco prima del suo viaggio in Asia, Papa Francesco ricevette il cardinale di Myanmar Charles Maung Bo. Al papa fu consigliato di non dire mai la parola ‘Rohingya’ durante il suo soggiorno a Myanmar. “E’ un termine contestato. I militari, il governo e la gente non gradirebbero sentirla dal papa,” ha detto il cardinale durante un’intervista. La questione è così delicata che all’interno della Chiesa alcuni hanno perfino cercato di scoraggiare il papa dall’intraprendere questo viaggio.
“Non ci sono Rohingya nel nostro paese,” ha detto in un’intervista il leader del movimento buddista Ma Ba Tha. “Il papa crede che provengano originariamente da qui, ma questo è falso”, ha aggiunto. Nessuno pronuncia la parola Rohingya semplicemente perché sono stati eliminati dalla mappa geografica ed etnica di Myanmar. Non si può nominare qualcosa che non esiste
Secondo le Nazioni Unite la minoranza Rohingya, di religione musulmana, è il gruppo etnico più perseguitato al mondo, vittima di pulizia etnica, omicidi di massa e stupri da parte di soldati e di monaci estremisti birmani. Almeno seicentomila sono fuggiti nel vicino Bangladesh.
Myanmar è in gran parte di religione buddista. Il governo, sostenuto dai militari, da anni porta avanti una politica di discriminazione verso i Rohingya, che vivono prevalentemente nello stato occidentale di Rakhine, una delle regioni più povere di un Paese già poverissimo. Cinque anni fa violenze scoppiarono fra buddisti e musulmani con quasi duecento morti. Da allora centoventimila persone sono abbandonate in campi profughi che nessuno può vedere. E altre centinaia di migliaia sono fuggiti di recente in Bangladesh. I musulmani di Rakhine rappresentano circa un decimo di tutti gli apolidi del mondo.
Da almeno sei secoli popolazioni musulmane vivono nella parte ovest del Paese, l’attuale stato di Rakhine, conosciuto nel Settecento come il regno indipendente di Arakan. Trascurato o ignorato dal governo centrale, generò un movimento indipendentista di ispirazione buddista con un suo corpo militare, l’Esercito dell’Arakan. Una seconda ondata di musulmani bengalesi giunse ad Arakan due secoli fa incoraggiata dagli inglesi che potevano usarli come manodopera a buon mercato. L’aumento della popolazione musulmana fece crescere il risentimento dei buddisti. I Rohingya sono oggi circa un milione di persone, un terzo della popolazione dello stato di Rakhine, e circa il due per cento dell’intera popolazione di Myanmar. Nel 1982 i Rohingya vennero privati della cittadinanza. Da allora la politica di discriminazione è diventata persecuzione e pulizia etnica. In seno ai Rohingya è nato un movimento di resistenza. Alcuni militanti lo scorso ottobre hanno ucciso nove guardie di confine. La reazione è stata brutale, a suon di violenze, stupri, massacri. Centinaia di migliaia di persone, terrorizzate, sono state costrette a fuggire in Bangladesh. Il mese scorso Bangladesh e Myanmar hanno raggiunto un accordo per il rimpatrio dei profughi ma rimangono fumosi i dettagli e senza una definizione del loro stato giuridico il problema non sarà risolto. Notizie inquietanti dal Bangladesh riferiscono la presenza di mine che sarebbero state sparse dai birmani lungo il filo spinato di confine per impedire ai profughi di rientrare a Myanmar.
Eppure, l’arrivo al governo di Aung San Suu Kyi, la ‘Signora’, com’è chiamata familiarmente, aveva fatto sperare in un cambiamento. Dopo quindici anni di arresti domiciliari, la leader dell’opposizione al regime militare fu eletta nel 2015 con un plebiscito, con la speranza da parte della comunità internazionale che potesse portare la democrazia nel suo Paese.
Da quando Myanmar (ex Birmania) ottenne l’indipendenza dagli inglesi nel 1948, i militari hanno quasi sempre comandato. La Costituzione del 2008 impedisce ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente perché i suoi figli sono cittadini britannici. E così ha assunto la carica di ministro degli esteri ed è inoltre stato coniato per lei un incarico ad hoc, Consigliere di Stato e Ministro dell’Ufficio del Presidente. Ma le speranze di un cambiamento sono andate finora deluse. il suo silenzio di fronte alla persecuzione di un intero popolo è diventato assordante. Di fronte al massacro dei Rohingya il prestigio del premio Nobel per la pace che le fu conferito per il suo ruolo a favore della democrazia nel suo Paese, è andato perduto.
Bob Geldof, musicista irlandese, fondatore di Live Aid, grande evento di musica rock degli anni ottanta organizzato per alleviare la carestia in Etiopia, ha annunciato di aver restituito il premio ‘Freedom of Dublin City’ conferitogli nel 2006. La stessa onoreficienza fu conferita ad Aung San Suu Kyi. “Non desidero essere associato in alcun modo con un individuo attualmente impegnato nella pulizia etnica di massa del popolo Rohingya del nord-ovest della Birmania “, ha detto. “Non voglio essere sulla stessa lista con quella che l’ONU descrive come autrice di un genocidio.” Anche il comune di Oxford le ha revocato un’onoreficenza. E anche gli U2, gruppo musicale irlandese, si è schierato contro la ‘Signora’, citando una celebre frase di Martin Luther King: ‘La tragedia umana non è l’oppressione e la crudeltà dei cattivi, ma il silenzio della buona gente.”
Aung San Suu Kyi è forse più semplicemente impotente davanti ai generali birmani. Min Aung Hlaing è il comandante supremo dell’esercito. Pressato dalla comunità internazionale su quanto sta accadendo nello stato di Rakhine, Min Aung Hlaing ha coordinato un rapporto sulle atrocità commesse a Rakhine che esonera qualsiasi responsabilità dell’esercito. Di fronte alla minaccia di sanzioni, crescono movimenti estremisti fra i potenti monaci buddisti, che non intendono udire né in pubblico né in privato la parola ‘Rohingya’.
Roger Cohen, editorialista del New York Times, scrive: “Myanmar, con le sue pagode dorate… sembra spesso vittima di una febbrile autorappresentazione come ultimo bastione del buddismo di fronte all’avanzata globale dell’Islam, in Afghanistan, Bangladesh, Pakistan e altri Paesi. I Rohingya sono diventati la personificazione di queste paure…[come nelle] …guerre balcaniche degli anni novanta, quando i serbi, in preda a un parossismo nazionalista, spesso liquidavano il nemico – i musulmani bosniaci, gli albanesi del Kosovo – come popoli inesistenti…”
Con la loro sofferenza i Rohingya impersonificano proprio quel tipo di popolazione che il papa fin dall’inizio del suo pontificato cerca di sostenere. C’era dunque grande attenzione per questo ventunesimo viaggio papale. Soprattutto per capire se il papa avrebbe pronunciato quella parola ‘proibita’. Condannare la violenza contro i Rohingya nominandoli avrebbe un significato politico pesante e suonerebbe come un monito ben più forte contro gli abusi e le violenze inaudite commesse nei loro confronti. Richiamare il generale Min Aung Hlaing e il ministro degli esteri, nonché premio Nobel epr la pace Aung San Suu Kyi a rispettare il diritto dei Rohingya a vivere nella loro terra, chiamandoli per nome avrebbe sapore ben diverso da un generico appello al rispetto della diversità e di tutti i gruppi etnici.
Pronunciare la parola Rohingya provocherebbe l’irritazione di molti, dall’esercito ai nazionalisti, ma accrescerebbe il prestigio morale del pontefice. “Il papa rischia di compromettere la sua autorità morale oppure di mettere in pericolo i cristiani in quel paese” ha scritto padre Thomas Reese della Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa nel mondo.
Durante il suo recente viaggio in Egitto il pontefice si è dimostrato restio a criticare direttamente i leader politici sulla mancanza dei diritti umani nel Paese. Mentre tre anni fa suscitò le ire della Turchia chiamando ‘genocidio’ il massacro degli armeni da parte dei turchi nella prima guerra mondiale.
Nella storia la Chiesa ha talvolta avuto atteggiamenti ambivalenti. Come nella ‘guerra sucia’, la ‘guerra sporca’ in Argentina, quando durante la dittatura militare migliaia di giovani, scomparvero nel nulla, i cosiddetti desaparecidos, con la Chiesa sospettata di complicità con il regime oppure di aver guardato dall’altra parte. Il momento storico recente più controverso rimane la figura di Pio XII che non prese posizione contro il genocidio degli ebrei nella seconda guerra mondiale.
Di fronte all’eventualità che papa Francesco potesse pronunciare la parola Rohingya davanti ai leader birmani, il cardinale Bo, poco prima del viaggio papale ha messo le mani avanti. “Se il papa dovesse menzionare la parola, non avrebbe una valenza politica.” In altre parole non equivarrebbe a un invito ad estendere anche ai Rohingya la cittadinanza birmana. “Non interferirà in questo,” ha detto il cardinale. “Sarà solo preoccupazione per un popolo sofferente.”
Il papa nei suoi tre giorni di soggiorno a Myanmar ha incontrato sia il generale Min Aung Hlaing che la ‘Signora’ Aung San Suu Kyi. La parola Rohingya non è mai stata pronunciata.
10.12.2017
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